Legittimo cacciare il dipendente che dà del “leccaculo” ad un diretto superiore

Episodio catalogabile, secondo i giudici, come grave insubordinazione e che rientra nella categoria che comprende litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro

Legittimo cacciare il dipendente che dà del “leccaculo” ad un diretto superiore

Dare del “leccaculo” ad un diretto superiore e poi rifiutare l’ordine da lui impartito è condotta grave e tale da legittimare il licenziamento.
Questa la visione tracciata dai giudici (ordinanza numero 21103 del 24 luglio 2025 della Cassazione) per rendere definitivo il licenziamento di una oramai ex dipendente di un’associazione.
Scenario della vicenda è un’associazione privata, che reagisce in modo drastico, cioè col licenziamento, alla condotta tenuta da una dipendente, la quale ha prima definito “leccaculo” un diretto superiore e poi si è opposta in modo netto all’ordine da lui impartitole. Tutto ciò, peraltro, sotto gli occhi di un’altra dipendente.
In primo grado, però, a sorpresa, la lavoratrice vede cancellato il licenziamento, definito illegittimo dai giudici in quanto sproporzionato, dovendosi ricondurre il fatto contestato tra quelli punibili con sanzione conservativa. Di conseguenza, l’associazione viene condannata in Tribunale non solo a reintegrare la lavoratrice ma anche a pagarle ben dodici mensilità.
Di parere opposto i giudici d’Appello, i quali ritengono legittimo il licenziamento ufficializzato nel novembre del 2018, a fronte di un episodio catalogabile come grave insubordinazione e che rientra nella categoria che comprende “litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro”.
Secondo i giudici di secondo grado, è condivisibile la valutazione compiuta dall’associazione datrice di lavoro, e, quindi, va qualificata come di notevole gravità la condotta della dipendente che si è rivolta al suo superiore gerarchico, in presenza di altra collega, utilizzando un epiteto volgare (“leccaculo”), in un contesto di dissenso rispetto a una direttiva impartita, e quella espressione è indice di insubordinazione.
Non trascurabile, poi, sempre secondo i giudici d’Appello, un precedente disciplinare, risalente al 2016, a carico della lavoratrice, precedente che è valutabile come indice della facilità con cui la dipendente trascende nell’uso di toni e termini chiaramente offensivi.
Inutili le obiezioni sollevate in Cassazione dalla lavoratrice e mirate a ridimensionare i fatti, presentandoli come non di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche alla luce di elementi quali la longevità del rapporto di lavoro e l’asserito suo stato di disagio psico-fisico.
Per i magistrati di terzo grado, come già per i giudici d’Appello, difatti, è indiscutibile la grave insubordinazione, con tanto di ingiuria, realizzata dalla lavoratrice, responsabile così di una condotta idonea, di per sé, a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario col datore di lavoro, soprattutto evidenziando il rifiuto di adempiere e l’insulto diretto a chi portava la disposizione rifiutata. Così, l’asserito periodo di insoddisfazione lavorativa della dipendente e le sue condizioni psicologiche non possono giustificare la condotta da lei tenuta sul luogo di lavoro, e, per giunta, dinanzi ad un’altra dipendente.
Per maggiore chiarezza, poi, i magistrati, confermando la giusta causa di licenziamento, sottolineano, come fatto anche dai giudici d’Appello, la gravità intrinseca dell’epiteto (“leccaculo”) rivolto ad un superiore gerarchico, epiteto non catalogabile come frutto di mero alterco o diverbio, ma come insubordinazione qualificata dall’ingiuria e dal rifiuto di adempiere alla direttiva, comportamento che incide direttamente sulla funzionalità e sulla gerarchia aziendale.
Inoltre, considerato il contesto in cui l’epiteto è stato pronunciato (reazione a una disposizione del superiore gerarchico), considerata la presenza di altra dipendente, che ne accentua la gravità e la platealità, e considerata la sussistenza di un atteggiamento di sfida e disprezzo verso l’autorità, la condotta incriminata è, per la sua natura oggettivamente grave, idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla longevità del rapporto o da asserite condizioni personali della lavoratrice, elementi, questi, non determinanti.
Per chiudere il cerchio, infine, viene anche sottolineato il peso specifico del precedente disciplinare a carico della lavoratrice, precedente che è un indice della facilità con cui trascende nell’uso di toni e termini chiaramente offensivi e ne evidenzia una inclinazione all’insulto e all’ingiuria, elemento che, seppur non determinante in termini di automatismo sanzionatorio, può essere considerato per valutare la complessiva condotta del dipendente e l’idoneità del fatto contestato a ledere il vincolo fiduciario col datore di lavoro. Ciò anche tenendo presente che lo ‘Statuto dei lavoratori’ non consente di tener conto in termini di recidiva dei fatti commessi dopo due anni dall’applicazione della relativa sanzione disciplinare ma non impedisce di merito di apprezzare un precedente comportamento del lavoratore per valutarne la personalità e l’idoneità alla prosecuzione del rapporto, anche se la sanzione correlata è sospesa.

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